Il fallimento dell’utopia delle avanguardie e delle neoavanguardie ha esaurito la parabola del modernismo rivelando l’opera d’arte nella sua essenza come merce tra le altre. Rivelandola anzi come la merce modello, un prodotto perennemente obsoleto il cui unico interesse risiede nelle sue trovate tecnico-estetiche, e il cui solo uso consiste nello status che conferisce a quelli che ne consumano la versione più recente. La sussuzione del lavoro artistico e culturale nella rete produttiva del capitalismo ha comportato una domesticazione generalizzata. L’opera d’arte è un gadget di lusso che risponde a un protocollo predeterminato dal sistema globale dell’arte. Produce capitale simbolico e distinzione, ma dev’essere facile, divertente, ben confezionata, curiosa forse, mai dissonante però, perché non sorprende né disorienta mai davvero. Risponde a un gusto internazionalmente omologato, a uno sguardo colonizzato e addomesticato. Se vendi vali, e per vendere devi costruire un prodotto rassicurante, facile, divertente, ben confezionato e opportunamente addomesticato. Ed è proprio questa la verità del capitale, la domesticazione del gusto e della dimensione estetica, la riconfigurazione progressiva dell’intera sensibilità umana, in una società dove, lo aveva intuito l’intelligenza visionaria di Debord, tutta la vita si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli.
Prima del moderno l’artista coincideva con l’artigiano e il suo contrassegno era l’anonimato come nella cultura bizantina e nei secoli in cui era stato in Europa, insieme ai suoi fratelli, un costruttore di cattedrali. La nascita dell’artista moderno, andrà invece di pari passo con l’imporsi del nome proprio e col suo graduale emanciparsi dal monopolio corporativo. Mentre nel caso dell’artigiano il valore estetico faceva tutt’uno con la perizia del mestiere e con la padronanza tecnica, nel caso dell’artista il valore estetico diventerà un plusvalore sovrapposto alla perizia tecnica e alle regole tramandate. L’opera d’arte sarà definita dal segno di un genio individuale come in Giotto, il primo pittore «borghese»1 che ha inaugurato lo spettacolo moderno dell’arte. L’artista diventerà d’ora in poi un creatore, e quindi il prototipo del soggetto moderno, l’individuo «artefice della propria fortuna». Il processo di emancipazione del soggetto moderno, che trova in Cartesio la sua sanzione metafisica, si completa con il processo di soggettivazione dell’artista. Artista pronto, dopo la secolarizzazione e il fallimento delle utopie rivoluzionarie del Novecento, a essere sussunto dalle fantasmagorie del capitalismo semiotico.
E proprio l’artista, dal momento in cui incarna la libertà di creare, è diventato negli anni Ottanta del Novecento, con l’imporsi del nuovo paradigma organizzativo postfordista e l’affermazione del lavoro autonomo e dell’autoimprenditorialità, il modello di «capitale umano»2. Ma l’artista ha sempre solo pensato di essere libero, passando in realtà da una sottomissione all’altra. Anche se non ha un padrone diretto, l’artista è sottomesso a dei dispositivi di potere, che non solo definiscono l’ambito della sua produzione, ma gli fabbricano una soggettività. E anche il lavoro autonomo e l’autoimprenditorialità segnano in realtà una grande sconfitta. Sconfitta di quel movimento dell’autonomia operaia e di quelle soggettività che avevano praticato il rifiuto del lavoro. Sono il risvolto privato di quella sconfitta, il segno dell’incapacità e dell’impossibilità di trasformare il rifiuto del lavoro da negazione del capitale a pratica di invenzione di forme dell’agire economico collettivo. Si tratta della strategia giocata dalla controrivoluzione neoliberalista che punta a colonizzare il cuore e l’anima e sintetizzata dalla famosa ingiunzione di Margaret Thatcher: «Arricchitevi!». La felicità degli anni Ottanta ha un cuore di panna, solo il mercato gode, translucido. Eppure non tutto è perduto, la sussunzione reale non è mai una reificazione totalizzante e nel tessuto del capitale è sempre possibile aprire brecce, produrre incidenti, resistenze e bruciature. Perché il capitale, è bene ricordarlo, non è un Moloch, ma una relazione di comando e quindi sempre una lotta tra i dispostivi di governo e assoggettamento e la cooperazione viva dei soggetti produttivi.
Ma per capire il come, è importante risalire all’origine di questa nostra domesticazione. Ed è dal cuore della modernità stessa che ci arriva una formidabile indagine su questo enigma, quel Discorso sulla servitù volontaria scritto nel XVI secolo da Étienne de La Boétie, manifesto clandestino di molte insubordinazioni. La tesi fondamentale di questo classico ribalta le concezioni tradizionali sul potere: l’uomo è attraversato da una libido serviendi per cui ogni potere si fonda non tanto sulla forza di chi lo esercita, ma sull’adesione volontaria di chi lo subisce. Gli uomini insomma sembrano amare le proprie catene più della loro naturale libertà. «Decidetevi a non servire più, ed eccovi liberi. Non voglio che lo abbattiate o lo facciate a pezzi: soltanto, non sostenetelo più, e allora, come un grande colosso cui sia stata tolta la base, lo vedrete precitare sotto il suo peso e andare in frantumi»3. La Boétie ci invita dunque a disertare, a rompere il concatenamento della domesticazione generalizzata a cui da origine quella servitù volontaria che il neoliberalismo contemporaneo riesce a mettere straordinariamente a valore.
Ma come liberarsi dunque da questo agencement, come disertare la colonizzazione dello sguardo e del gusto e la loro domesticazione, fuggendo allo stesso tempo le false promesse del postmoderno? Perché, ricordiamolo, il postmoderno nelle sue diverse formulazioni è, avrebbe detto Michelstaedter con la sua splendida metafora, un peso agganciato al moderno e non può uscire dal gancio, poiché «quant’è peso pende e quanto pende dipende». Pensiamo qui al postmoderno filosofico italiano e al neomaniersimo della Transavanguardia, anamorfosi del moderno, raffinate ideologie scettiche e logiche culturali del neoliberalismo, in quanto «parodie dello sguardo critico e insieme consumata abilità a godere dei privilegi della restaurazione»4
Un’indicazione suggestiva ci viene da un’antica parola ebraica, tzimtzum, che significa ritrazione o contrazione, e sta a indicare l’atto d’amore con cui Dio, al momento della creazione, si è ritirato per far posto al mondo. Ecco, allo stesso modo l’artista, con un atto d’amore, dovrà ritirarsi e rifiutare la sua identità, sottrarsi a quella gestione del proprio io che gli ha dato l’illusione di essere libero, per potersi finalmente metamorfizzare. Allo stesso modo, dovremo complessivamente ritirarci da questo mondo in cui domina il capitale, dovremo praticare la diserzione a cui ci invita La Boétie, seguire ostinatamente il rifiuto di Bartleby, ma allo stesso tempo dovremo essere in grado di andare più in là della sola sottrazione, dovremo essere capaci fin da subito «di spedire pattuglie in territorio ignoto, per osservare e sabotare, ma soprattutto per sperimentare e ricostruire»5. Sperimentare e ricostruire un tempo e uno spazio che restituiscano l’opera alla sua dimensione collettiva. Nel tempo e nello spazio della post-arte, l’opera non potrà che essere di tutti e per tutti come costruzione di uno spazio e di un tempo comuni dell’abitare. Il tempo e lo spazio della post-arte potranno ricordare forse quelli dell’Europa attraversata dai costruttori di cattedrali. Senza più alcuna trascendenza però, la post-arte esprimerà invece l’immanenza assoluta della comunità umana.