ARTE Y POLITICA, OTRA VEZ – Dora García (21-04-2014)
Da otto anni insegno in diverse scuole d’arte.
Lo stipendio da professore ti assicura una certa stabilità esistenziale, indubbiamente, ma soprattutto ti libera dal bisogno di frequentare le gallerie d’arte, le fiere e i collezionisti, i critici d’arte… ti libera da quel bisogno di sentirti sempre in competizione, di arrivare primo, di essere sempre in forma, rapido e intelligente. Dall’essere insomma un buon imprenditore di te stesso. Lo stipendio da professore ti assicura una certa libertà rispetto a un lavoro, quello dell’artista inserito nel mercato dell’arte, nel quale credi sempre meno, che ti annoia sempre di più e che inizi a considerare qualcosa di sempre più stupido, un luogo comune, e che tra l’altro ti costringe ad avere rapporti economici a volte anche poco raccomandabili. Ma l’importanza dell’insegnamento risiede altrove. Formare i giovani artisti è un lavoro di grande responsabilità. Ci sono momenti in cui mi sento, un po’ stupidamente lo so, in missione: insegnare agli studenti che la cosa più importante per un artista è il pensiero, sviluppare un senso critico da esercitare sempre e ovunque, non dare niente per scontato, rifiutare i saperi precostituiti, elaborare un proprio punto di vista sulle cose. Pensare, questa è l’attività più pertinente e più caratteristica di un artista. Pensare, aggiungerei, è l’attività più pertinente e più caratteristica di ogni persona. Perché probabilmente l’«artista» è chiunque abbia deciso di dedicare la propria vita soprattutto a pensare.
Recentemente, nella scuola di Ginevra nella quale lavoro, ho seguito una conferenza di Gianni Motti. L’artista è rimasto fedele al suo personaggio, a quello che rappresenta da molti anni: una figura piena di humor, irriverente, uno che per lo più se ne frega, che odia la boria e la pedanteria, uno che porta il suo viso da clown triste e sovversivo in giro per tutti gli angoli dell’attività artistica, politica e sociale. Una specie di Forrest Gump impertinente. Durante il dibattito una giovane con il velo si è alzata in piedi e gli ha domandato: «Signor Motti, se lei è interessato davvero alla questione dei migranti, ai conflitti, alle guerre, agli scandali economici, perché non è mai stato in uno dei posti dove i conflitti accadono realmente, in Iran, Irak, Afghanistan?». Gianni Motti allora ha subito lasciato da parte il suo personaggio e con un tono di voce evidentemente diverso da quello utilizzato durante la conferenza ha risposto: «Se sono un artista, e non un politico, è proprio per non essere obbligato a rispondere a domande come questa. Non mi interessa fare politica attiva, fare politica significa ubbidire a persone che non conosci mai per davvero». Le sue parole mi hanno fatto riflettere, io non sono mai riucita a risolvere l’equazione arte e politica, e forse è una cosa che neanche mi interessa davvero.
So di non poter fare a meno di una coscienza politica, o meglio, non posso evitare di arrabbiarmi e in alcune occasioni sono senz’altro nauseata per un certo stato delle cose, e non posso fare a meno di cercare risposte a tutto questo. Sento il dovere di reagire di fronte alla manipolazione del lavoro degli artisti da parte dei poteri politici, dei governi e dei poteri economici. Devo reagire di fronte alle follie del mercato dell’arte, tanto più che so bene quanto poco questa ricchezza si riversi effettivamente sugli artisti, sulla qualità delle loro vite e in quella delle persone con le quali lavorano. Devo reagire di fronte alla banalizzazione della cultura, di fronte alla mutilazione continua della sua capacità critica portata inesorabilmente a termine da un’industria culturale (orribile combinazione di parole: industria culturale) che cerca di infantilizzare il pubblico arrivando a offenderlo. Devo reagire di fronte a una società molto più puritana, reazionaria e conservatrice – il che vuol dire molto più crudele e meno comprensiva verso il dolore degli altri – di quella nella quale sono cresciuta. Devo reagire a tutto questo, anche a partire dal mio lavoro ovviamente, poiché non posso separare il mio lavoro dalla mia vita. Ma questo non fa comunque di me un’artista politico, almeno per quello che comunemente si intende con queste parole.
Perché ho ben presente come l’impegnato André Breton abbia determinato la fuoriuscita dal gruppo surrealista di artisti come Antonin Artaud o René Magritte, artisti ai quali mancava l’impegno… E come Guy Debord abbia espulso Gil Wolman dall’Internazionale Situazionista perché il fatto di aver avuto un figlio lo rendeva inadatto a un impegno radicale. Ma non ci sono dubbi che Antonin Artaud, che non si impegnò mai politicamente, abbia determinato più rivoluzioni di tutti gli altri suoi compagni surrealisti, come dimostra per esempio la citazione costante della sua Lettera ai direttori dei manicomi da parte di Franco Basaglia.
Anche se fa parte dell’opera teatrale Travesties di Tom Stoppard, questo dialogo di James Joyce con Henry Carr potrebbe essere vero:
– Cosa ha fatto durante la Prima Guerra Mondiale, Joyce?
– Ho scritto Ulisse? Lei cosa ha fatto?
E sempre in questo senso va letta un’altra famosa frase di Joyce a proposito del bombardamento di Guernica: «Ora bombardano la Spagna! Non farebbero meglio a passare il tempo a scrivere barzellette come faccio io?»
Il lavoro di Kafka o di Walser non è forse politico? È profondamente politico, senza che ci sia nei loro libri una sola riga che inciti i lettori all’azione politica diretta. Non c’è un’incitamento all’azione, c’è invece un’incitamento al pensiero.
Molti di quegli artisti che decidono di essere identificati come «politicamente impegnati» finiscono per avere un atteggiamento simile a quello di Breton e Debord, condannando gli altri artisti che secondo loro non sono politicamente abbastanza impegnati, e sostenendo che solo quell’arte che produce conseguenze politiche concrete merita di essere presa in considerazione; perché tutto il resto non farebbe altro che reggere il gioco al capitale. Naturalmente tutto questo è mostruoso, è settario, assurdo, presuntuoso e crudele. Chi siamo noi per decidere cosa produce conseguenze politiche concrete? Perché un artista dovrebbe essere obbligato a rispondere, come nel caso di Gianni Motti, a un’esigenza politica? Non è forse proprio questa stessa esigenza di impegno politico, un altro modo di neutralizzare la carica sovversiva dell’arte, sovversiva anche rispetto all’impegno politico? Il romanzo di Riccardo Piglia Respirazione artificiale si conclude con il racconto di un incontro, improbabile ma non impossibile, tra il giovane Adolf Hitler e Franz Kafka in un bar di Praga nel maggio del 1910. Adolf si lascia trasportare dalle sue fantasie ariane di dominio e conquista, e parlando con Kafka tratteggia un quadro appassionato del futuro dell’Europa, di fronte al quale Franz si ritrae spaventato. Adolf, scusandosi, gli dice che si tratta solo di parole, e che si è lasciato trasportare dall’entusiasmo:
«La sua gravità mi uccide. Con la testa infilata nel colletto della camicia, i capelli immobili e pettinati lisci sul cranio, i muscoli della mascella tesi, al loro posto… puntini di sospensione, lesse Tardewski. Immediatamente dopo, nella riga seguente, Kafka scrive: Discussione A. Non volevo dire questo, mi dice, legge Tardewski. Lei mi conosce, dottore. Sono un uomo assolutamente inoffensivo. Dovevo sfogarmi. Ciò che ho detto non sono altro che parole. Io lo interrompo. È proprio questo che è pericoloso. Le parole preparano la strada, sono l’annuncio delle azioni venture, le scintille degli incendi futuri. Non avevo intenzione di dire questo, mi risponde A. Questo lo dice lei, ribatto cercando di sorridere. Ma sa quale aspetto abbiano le cose realmente? Può darsi che ci troviamo già seduti sul barile di polvere da sparo che trasformerà in fatti il suo desiderio […]
A chi può riferirsi Kafka se non a quel propagandista del delirio, a quell’insignificante profeta del dolore del mondo, quando scrive nella quarta minuta di Descrizione di una battaglia quanto segue? Mi racconti tutto dall’inizio alla fine, lesse Tardewski. Se sarà reticente non l’ascolterò, l’avverto. Ma sono ansioso di udire tutto da lei. Perché ciò che lei progetta è talmente atroce che solo ascoltandolo posso dissimulare il mio terrore». (Ricardo Piglia, Respirazione artificiale, pp.246-247)
Hitler era senza dubbio un uomo d’azione, un uomo che voleva cambiare radicalmente la realtà. E benché una distanza oceanica di senso e volontà politica, etica, moralità e senso comune, separi questo Satana del Novecento da qualsiasi altro militante odierno, spesso, ascoltando una qualsiasi invettiva politica che ci vorrebbe tutti inquadrati, senza pensare né riflettere, in un’unica e stessa direzione, ripeto a me stessa quelle parole scritte da Piglia:
«Mi racconti tutto dall’inizio alla fine. Se sarà reticente non l’ascolterò, l’avverto. Ma sono ansioso di udire tutto da lei. Perché ciò che lei progetta è talmente atroce che solo ascoltandolo posso dissimulare il mio terrore».
L’importante, la cosa sempre importante, è pensare.
ARTE Y POLITICA, OTRA VEZ- Dora García
Desde hace ocho años soy profesora en diferentes escuelas de arte.
El sueldo regular de un profesor dota de cierta estabilidad a la vida, es cierto, pero sobre todo te libera del agotador ejercicio de frecuentar galerías de arte, ferias y coleccionistas, críticos de arte; mostrarte competitivo, triunfador, ágil, rápido, inteligente. Ser en resumen un buen empresario de tu propio trabajo. El sueldo de un profesor te permite desentenderte bastante de un trabajo, el de artista-en-el-mercado-del-arte, que cada vez te crees menos, cada vez te aburre más, y que cada vez se te hace más sospechoso de estupidez, lugar común, y también de conexiones económicas poco recomendables.
Pero otra razón es la importancia de la enseñanza. Es una labor de enorme trascendencia el formar a los nuevos artistas. Hay momentos en que me siento, tontamente lo sé, casi en una misión: enseñar a los jóvenes artistas-in-spe que la actividad más importante para un artista es pensar, desarrollar un espíritu crítico ante todo y ante todos, no dar nada por sentado, evitar lo recibido, formar su propia opinión de las cosas. Pensar, esa es la actividad más pertinente, más característica de un artista. Pensar, diría yo, esa es la actividad más pertinente, más característica, de cualquier persona. Porque muy posiblemente, un artista es cualquier persona, cualquier persona que ha decidido dedicar su vida sobre todo a pensar.
Recientemente, en la escuela de Ginebra donde trabajo, asistí a una conferencia del artista Gianni Motti. El artista se mantuvo fiel al personaje que representa desde hace tantos años, Gianni Motti, una figura llena de humor, irreverencia, al que le importa todo más bien poco, que huye de lo pedante, de lo pretencioso, que pasea su cara como una especie de clown triste y a la vez subversivo por todos los rincones de la actividad artística, política, social. Una especie de Forrest Gump impertinente.
En el momento de las preguntas, una joven con velo en la cabeza se levanta y le pregunta: “Sr Motti, si está usted realmente tan interesado en los conflictos de inmigrantes, de guerras, de escándalos económicos, ¿Por qué nunca ha visitado alguno de esos lugares donde los conflictos ocurren realmente, Iraq, Irán, Afganistán?”
Gianni Motti abandonó instantáneamente su personaje de artista Gianni Motti, y con un tono de voz claramente diferente al utilizado durante la conferencia, dijo: “Si soy artista, y no político, es para no tener la obligación de responder preguntas como esa. No me interesa participar literalmente en la política, la política quiere decir obedecer a personas que no conoces realmente”. Aquello evidentemente me dio que pensar. Nunca he conseguido resolver la ecuación arte y política, quizás no me interesa realmente.
Sé que no puedo evitar tener una conciencia política, o más bien, no puedo evitar sentir una gran incomodidad, en ocasiones incluso una naúsea, por ciertos estados de las cosas, y no tengo otra opción que responder a ellos. Tengo que reaccionar ante la manipulación evidente del trabajo de los artistas por parte de los políticos, los gobiernos, y otros poderes económicos. Tengo que reaccionar ante la euforia que a menudo observo en el mercado del arte cuando sé lo poco que esa bonanza económica repercute en los artistas, en su calidad de vida, y en las personas con las que trabajan. Tengo que reaccionar ante la banalización de la cultura, ante la mutilación constante de su capacidad crítica, llevada a cabo inexorablemente por una industria cultural (horrible duo de palabras: “industria cultural”) que intenta infantilizar al público hasta lo ofensivo. Tengo que reaccionar a una sociedad mucho más puritana, reaccionaria y conservadora – lo que quiere decir, mucho más cruel e incomprensiva con el dolor de los otros- que aquella en la que crecí. Tengo que reaccionar a todo eso, desde mi trabajo también naturalmente, ya que no puedo separar mi trabajo de mi vida. Pero eso no hace de mí lo que comúnmente se entiende como artista política. Porque tengo muy presente que el comprometido políticamente André Breton provocó la salida del grupo surrealista de artistas como Antonin Artaud o René Magritte – les faltaba engagement. Que Guy Debord había expulsado a Gil Wolman de L’Internationale Situationniste porque el hecho de haber tenido un hijo le hacía incapaz para el radicalismo situacionista. Qué duda cabe que Antonin Artaud, que nunca se significó políticamente, provocó más revoluciones que todos sus compañeros surrealistas, como puede verse en la citación continua de su “Lettre aux médecins chefs des asiles de fous” que hace Franco Basaglia.
Aunque pertenece a la obra teatral “Travesties” de Tom Stoppard, es muy creíble el siguiente diálogo de James Joyce con Henry Carr:
– ¿Qué hizo usted durante la gran guerra, Joyce?
– Escribí “Ulises” ¿Qué hizo usted?
A eso mismo se refiere otra famosa cita de Joyce, en el momento del bombardeo de Guernika: “¡Ahora bombardean España! ¿No harían mejor en pasar el tiempo escribiendo chistes, como yo?” ¿Es que el trabajo de Kafka o de Walser no es político? Es profundamente político, sin contener una sola línea que inflame a sus lectores a la acción política. No es una llamada a la acción, es una llamada al pensamiento.
Muchos de los artistas que deciden aceptar la etiqueta de “comprometidos políticamente” mantienen una actitud muy cercana a la de Breton y Debord, condenando al destierro a aquellos artistas que según ellos no asumen un compromiso político suficiente, e incluso llegando a decir que solo el arte que tienen consecuencias políticas reales merece la pena de ser tenido en cuenta; el resto solo le hace el juego al capital.
Naturalmente, todo esto es monstruoso, sectario, absurdo pretencioso y cruel. ¿Quiénes somos nosotros para decir qué es lo que tiene consecuencias políticas reales? ¿Por qué un artista debería ser obligado a responder, como en el caso de Gianni Motti, a una exigencia de compromiso político? ¿No es acaso esta exigencia de compromiso político, otro modo más de neutralizar la carga subversiva del arte, también subversiva respecto a “compromisos políticos”?
En la novela de Ricardo Piglia “Respiración Artificial”, la narración se cierra por sorpresa con un encuentro, improbable pero no imposible, entre el joven Adolf Hitler y Franz Kafka en un bar de Praga, en mayo de 1910. Adolf se deja llevar por sus fantasías de dominación aria y sus llamadas a la acción y a la conquista y le pinta a Kafka un retrato apasionado del futuro de Europa ante el cual Franz retrocede espantado. Adolf le pide disculpas, le dice que solo son palabras, que se ha dejado llevar:
“Su gravedad me mata. Con la cabeza metida en el cuello de la camisa, el cabello inmóvil y peinado sobre el cráneo, los músculos de la quijada tensos, en su lugar…, puntos suspensivos, leyó Tardewski. Inmediatamente, en el renglón siguiente, Kafka transcribe esto: Discusión A. No quería decir eso, me dice, lee Tardewski. Usted ya me conoce Doctor. Soy un hombre completamente inofensivo. Tuve que desahogarme. Lo que dije no son más que palabras. Yo lo interrumpo. Esto es precisamente lo peligroso. Las palabras preparan el camino, son precursoras de los actos venideros, las chispas de los incendios futuros. No tenía intención de decir eso, me contesta A. Eso dice usted, le contesto tratando de sonreír. Pero ¿sabe qué aspecto tienen las cosas realmente? Puede que estemos ya sentados encima del barril de pólvora que convierta en hecho su deseo. ”
(…)
¿A quién puede referirse Kafka si no a ese propagandista del delirio, a ese insignificante profeta del dolor del mundo, cuando escribe en el cuarto borrador de Descripción de una lucha lo siguiente? Cuéntemelo todo desde el principio hasta el fin, leyó Tardewski. Si es menos, no lo escucho, se lo advierto. Pero estoy sobre ascuas para oírlo todo de usted. Porque lo que usted planea es tan atroz que sólo al oírlo puedo disimular mi terror. (Respiración Artificial, pág. 201-202)
Hitler era, qué duda cabe, un hombre de acción, un hombre que buscaba cambiar radicalmente lo real. Y aunque probablemente océanos de sentido y de voluntad política y de nivel ético y de fuerza moral y de decencia y de sentido común separan a este gran Satán de cualquier otro activista político actual, a menudo, al escuchar cualquier discurso de acción política que quiere lanzarnos a todos, sin pensar, sin reflexionar, en una única dirección, me repito esas palabras escritas por Piglia:
“Cuéntemelo todo desde el principio hasta el fin. Si es menos, no lo escucho, se lo advierto. Pero estoy sobre ascuas para oírlo todo de usted. Porque lo que usted planea es tan atroz que sólo al oírlo puedo disimular mi terror.”
Lo importante, lo importante siempre, es pensar.