CLIMA di Emilio Fantin a proposito di La notte è anche un sole. 

La notte è anche un sole risuona con la luce del buio, titolo di una performance che ho recentemente realizzato sul tema del coma, vale a dire sulla lunga notte che possibilmente termina con il sole accecante del ritorno alla vita. Io leggo questa coincidenza come coincidenza significativa a confermare le affinità che mi legano a Manifesto Brutal. Giorgia Frisardi, Mattia Pellegrini, Jesal Kapadia, Marco Fellini, Corrado Chiatti, Eleonora Biagetti, Edoardo Pellegrini per lo piû sono amici che non avevo avuto il piacere di riabbracciare da tempo (vuoi per i vari lock down, vuoi per i destini). Fanno però tutti parte di ciò che chiamo comunità invisibile, uno spazio non fisico, non temporale e non geografico, dove non ci si affida solo alla parola detta ma al pensiero, all’immaginazione, al ricordo e alla visione. Non c’è stata sorpresa nel rivedersi ma piacere nel sentire scorrere il flusso che ci accomuna, nell’intuire la nostra prossimità. Mi sono sentito libero di intervenire durante la notte è anche un sole, sia intessendo il bellissimo telaio magico posizionato al centro della scena, sia leggendo un testo (che ho letto nella sua qualità invisibile ovvero estraendo parole direttamente dal flusso della mia immaginazione)

La notte è anche un sole vive in uno spazio all’interno dell’orto botanico di Lucca:  gli elementi che abitano la scena sono carichi di tensione. Un grande telaio matamorfosa trecce e gomitoli di lana in un cromo-estuario i cui rami esondano dagli argini.

Musiche si alternano a musiche e parole lette a parole ascoltate. Il palcoscenico inventato è percorso da protagonisti non ben individuabili, tutto sembra tendere verso il pubblico, o meglio verso l’immagine del pubblico che nel frattempo è già evaporata.

Chi legge un brano da uno dei libri casualmente disposti sopra un tavolo-radura, è una voce, chi l’ascolta, un orecchio. Le parole taglienti infliggono male e regalano bene, senza prepotenza o pre-potere perché entrano nell’oscillazione ritmica di una polifonia. Non si può dire che sia teatro e non si può dire che sia qualcosa di performato, recitato o rappresentato. Si crea una clima di liquidità estetica, di metamorfosi della parola, una trama di pensieri, un ordito di colori.

Una questione di clima. Non una rappresentazione, né una messa in scena, né un’ asserzione, né un suggerimento per un’immaginazione, né tantomeno una situazione, ma una condizione. Uno stato. Il pubblico alla fine non se ne va perché non si riconosce come pubblico ma non vuole rinunciare ad esserci. Contribuisce ad una condizione, ad un consenso emozionale, ad una forma di intuizione.

Un contenitore aperto a possibili trasformazioni, potenzialmente accogliente, se pur orientato dalla proposta dei libri. Dove l’ autorialità persiste nella scelta politica ma lasca spazio al contrappunto, perché ognuno è libero di leggere ciò che vuole e potrà sempre trovare all’interno di un saggio, di un romanzo o di un racconto una nota solitaria, atonale, dissonante.

Solo attraverso la creazione di un clima si ha la speranza di cogliere (e/o essere colti da) un accadimento imprevedibile, un’epifania e di farlo proprio con grazia, muovendo da ciò che viene detto, letto, ascoltato, visto, a ciò che viene intuito, pensato, immaginato. Nella notte è anche un sole vien officiato un rito che non evoca una divinità ultraterrena ma si appella ad un sentire plurale, terreno e corporale, percorso da correnti di spirito che questa volta sembrano palesarsi nelle intercapedini dell’espressione, nella pieghe della lettura, nelle pause della musica.

due domande a proposito di La notte è anche un sole

L’atto della tessitura, l’incontro, la coordinazione di gesti e sguardi: sono tutti elementi che parlano di una poetica del fare e dell’essenziale. Anche nel vostro manifesto scritto si parla più che altro di poesia e canto, quasi a comporre un rituale, un’estasi collettiva. La mia domanda è: quanta importanza hanno le parole a livello concettuale nella vostra opera? Perché di parole ce ne sono tante, tantissime, e di chiara valenza sociopolitica. Non mi pare che sia possibile ridurre il vostro parlato a un canto ipnotico. 

In sostanza: cosa sono le parole per Manifesto Brutal?

Le parole tracciano una traiettoria, prendono voce là in mezzo dove tutto si frantuma. Parla anche tu, anche se fossi l’ultimo a parlare. […] La poesia, Signore e Signori questa parola d’infinito, parola della morte vana e dell’unico Niente. 

Pernottiamo in un pensiero, incontriamo autrici risalendo il fiume del tempo ed ogni volta quelle parole significano qualcosa di altro, di completamente altro. Ma la parola se da un lato è ciò che nell’animale umano si fa strumento per pensare, e molto di più che mezzo per comunicare, è anche ciò che ci imprigiona, che nutre la volontà di classificare, nominare, incasellare. 

E’ allo stesso tempo agonia e furore. 

Il tentativo che si attua attraverso la parola dentro Manifesto Brutal è una continua danza tra queste due polarità. Sappiamo bene che quando si sceglie di utilizzare una parola invece che un’altra si attua una presa di posizione, di un territorio, di amicizie e inimicizie. Cerchiamo di continuare a fratturare, di rompere ossa e cartilagini ad un corpo in putrefazione, deterritorializzando, ma anche questo è abitare un mondo invece che un altro. Anche mentre scriviamo, adesso. 

E le parole creano dei concetti e sono anche suono. E il suono incontra il canto. 

Il nomos e il canto come ci insegna Monica Ferrando in Il regno errante: L’Arcadia come paradigma politico. Questo lavoro sulla voce è parte determinante della nostra ricerca e non ci dispiace pensare che parole, concetti, suoni possano divenire anche un canto ipnotico. 

Per arrivare a La notte è anche un sole dobbiamo specificare che a differenza delle altre forme di Manifesto Brutal in cui avevamo preparato un testo con un inizio ed una fine qui il processo ha seguito altre linee. 

Abbiamo portato dei libri, la nostra macchina privilegiata, li abbiamo messi sul tavolo e chi era interessato poteva leggere ciò che voleva. Anche la prima lettura, una poesia di Carla Lonzi, è stata scelta poco prima di iniziare. L’unico testo preparato per l’occasione è stato YAMAHA scritto da Marco Fellini e letto in dialogo con Corrado Chiatti. Nel mezzo sono avvenuti incontri imprevisti in tensione al telaio brutalista creato da Edoardo Pellegrini: il porno terrorismo di Diana J. Torres, la poesia del poeta e drammaturgo della DDR Heiner Müller, Audre Lorde e la sceneggiatura pubblicata del film Naked Spaces – Living Is Round di Trinh T. Minh-ha insieme a documenti dell’Encuentro zapatista del 1996 e ancora  Tiqqun, Elfriede Jelenik, Sunaura Taylor, Asja Lacis, Paul Celan e altri testi che abbiamo scritto per altre occasioni come Corporalmente Corretto di Giorgia Frisardi e La copia di una copia di una copia di una copia di Mattia Pellegrini che dava vita in forma di voce registrata al primo Manifesto Brutal al Macro Asilo di Roma nel 2019. 

More Sound Less Structure ci insegna Ben Morea. 

– Il vostro Manifesto parla di trasformazione e sovversione: pensate che sia possibile far uscire manifestazioni come La notte è anche un sole dalla rassicurante cornice di un festival? Liberare questi atti sacri dal limite del luogo deputato? In breve: fin dove è pronto a saltare Manifesto Brutal?

Da sempre ogni singolarità che abita questa collettiva ha desiderato smontare qualsiasi luogo deputato. La potenza destituente attraversa le nostre pratiche:  scrivendo, sottraendoci all’obbligo del lavoro, attuando fughe disperate, cercando una comunità inoperosa pur non credendo più in nessuna comunità possibile. 

Negli ultimi tre anni Manifesto Brutal è stata l’occasione per una banda di amiche e amici di ritrovarsi e concentrare le sensibilità , di provare a dare una forma seppur frammentaria e sempre insufficiente. E’ stato un atto di cura consapevoli di abitare un presente asfissiante. E’ stato creare geografia mentre una parte di noi non poteva più muoversi. 

Jesal Kapadia came from Mumbai, and brought with her words and textile to another language, crossing the Indian Ocean only to find the same Mangifera Indica potted right next to the Fichi di India in this orto botanico – speaking nearby, as Trinh T. Minh-ha says. And not to our surprise, Emilio Fantin, who arrived just before the performance began, spoke words straight from his stream of consciousness! 

Like the ancient metaphor goes: thought is a thread, and the raconteur is a spinner of yarns — but the true storyteller, the poet, is a weaver.

Per quanto riguarda i luoghi deputati c’è un’altra cosa da segnalare ovvero il fatto che ogni volta l’invito a partecipare è arrivato da una persona amica e non poteva accadere altrimenti: Giorgio de Finis per il Macro Asilo e il Museo Delle Periferie, Harout Simonian per Chaosmic Spasm – Yerevan Biennale e Irene Panzani per le due edizioni di Giungla.